giovedì 15 gennaio 2015

Marco Lazzara - La TavolAperiodica - Potassio & Cloro

Prosegue la rubrica dedicata a Primo Levi, autore, tra gli altri, de Il sistema periodico. A curarla è Marco Lazzara, anche conosciuto come il blogger errante. Non ha un proprio blog, infatti, ma sul profilo di google+ è possibile leggere tutti i suoi guest post. Già, ma chi è Marco Lazzara? Laureato in Chimica nel 2009, è docente presso il Centro Studi Test Torino ed anche scrittore. Il suo Incubi e Meraviglie è una raccolta di racconti di fantascienza che i lettori più giovani apprezzeranno per l'immediatezza del linguaggio, seppure molto curato, e quelli più adulti per la maturità delle riflessioni.

m.c.


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La TavolAperiodica - Potassio & Cloro

Lavorare in laboratorio può alle volte portare a situazioni inaspettate, spesso a causa di esperimenti che non riescono, specie quando non si tiene conto dei basilari fondamenti della Chimica. È quello che capita a Primo Levi nel racconto Potassio, dove sostituendo questo elemento al sodio l’effetto ottenuto è a dir poco esplosivo. A seguire, invece, il mio racconto Cloro, che parla di un episodio occorso durante la mia tesi di laurea, dove il non aver tenuto conto delle proprietà di un suo composto ha portato a conseguenze impreviste. In entrambi i racconti si vede l’uso di una tecnica di separazione, distillazione per Levi, estrazione con solvente per me.


Potassio

In questo racconto, ambientato ai tempi dell’università, Primo Levi riesce a entrare nel progetto di ricerca di un suo docente, il quale, essendo un fisico, necessita dell’aiuto di un chimico per svolgere le pratiche di laboratorio. 


Come prima cosa, Levi deve purificare del benzene: la procedura riportata dai manuali indicava di effettuare una distillazione frazionata e poi un’ultima distillazione in presenza di sodio metallico, in modo da rimuovere tracce di umidità. Sfortunatamente di sodio non ce n’era, così Levi decide di usare il potassio, che ha le stesse proprietà chimiche. Una volta terminato, Levi rimuove con cura il potassio e si mette a lavare la vetreria. Ma il potassio è più reattivo del sodio: se uno reagisce violentemente, l’altro ancora di più, liberando molto più calore. 

Il pallone conteneva vapori residui di benzene, e tracce di potassio rimaste aderite al vetro, che Levi non aveva individuato, a contatto con l’acqua accendono la miscela. Dal collo del pallone viene sparata una fiammata verso le tende della vicina finestra, che prende subito fuoco. Levi si trova quindi costretto a domare l’incendio da lui provocato. 
La morale è che occorre diffidare del quasi-uguale: le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse.

Cloro

Scopo primo della mia tesi di laurea era l’analisi dell’arsenico per via elettrochimica, e quando lo strumento su cui lavoravo cominciò a dare segni di instabilità, ebbe per me inizio un periodo di grosse difficoltà. Dovetti passare alcuni mesi diviso tra il cercare di resuscitarlo con pratiche che avevano quasi dello stregonesco - ringraziando quando per qualche minuto lo strumento tornava a dare segni di vita e imprecando quando dopo poco smetteva di darne - e il dedicarmi ad altri studi. 


Uno di questi, che si aveva intenzione di effettuare più avanti nella tesi, era un confronto tra l’analisi elettrochimica e quella classica per via spettroscopica, in modo da dimostrare che la prima era più semplice, più veloce e più pratica: questo perché, a differenza della spettroscopia di assorbimento atomico, permette di discriminare tra arsenico(III) e arsenico(V) senza bisogno di separazioni preliminari del campione. 

Con la spettroscopia, la metodica da usare era il metodo di Chapell, che consisteva nel suddividere il campione in due aliquote: sulla prima si effettuava l’analisi dell’arsenico(III), sulla seconda l’arsenico totale, da cui, per differenza, si ricavava l’arsenico(V). 
Si acidificava la prima aliquota con una soluzione concentrata di acido cloridrico, in modo da favorire la formazione dei cloro-complessi dell’arsenico, quindi la si poneva in imbuto separatore e si procedeva all’estrazione usando del cloroformio: in questo modo il solo cloro-complesso dell’arsenico(III) sarebbe passato in fase organica. Bisognava anche fare attenzione a far sfiatare ogni tanto l’imbuto, altrimenti il tappo sarebbe potuto saltare all’improvviso per l’aumento di pressione dovuto ai vapori di cloroformio. Infine, si controestraeva in acqua, ambiente più adatto all’analisi. 

Se con la prima frazione si trattava di semplice routine, la seconda mostrò invece inaspettate qualità. A essa si aggiungeva infatti una soluzione di ioduro di potassio, allo scopo di ridurre l’arsenico(V) ad arsenico(III), cosa che donava alla soluzione un vivace colore giallo. La procedura si ripeteva poi identica a prima, ma ecco un altro effetto cromatico: sembra infatti che il cloroformio formi una sorta di addotto o complesso con lo iodio, il che colorava la soluzione di un elegante rosa tenue. 

Nel laboratorio dove svolgevo la tesi, occupandosi per lo più di analisi di metalli, non si disponeva di cloroformio; allora il dott. G., che lavorava al piano superiore, mi fece molto gentilmente omaggio di un barattolone da due litri. Era un barattolo molto grosso e pesante, così, per lavorare con più comodità, cercai un recipiente più piccolo in cui versarne il quantitativo adatto al lavoro che stavo svolgendo: la scelta ricadde su un barattolino di teflon che trovai in un cassetto. 

Dopo alcune ore di lavoro, uscii per andare a pranzo. Cercando di non rimanere tramortito dalle temperature sahariane che si registrarono quell’anno a luglio, mi diressi com’era mia abitudine al parco del Valentino. Avevo scovato un posto interessante: praticamente dovevo infilarmi in un cespuglio, ma così facendo mi ritrovavo sotto una sorta di ombrello naturale formato dai rami di una pianta bassa. Pranzavo seduto sull’erba con affianco un ruscelletto, su cui facevo navigare barchette improvvisate con la carta di giornale. 

Tornato dal pranzo, ripresi a lavorare alla mia estrazione. Afferrai il barattolino di teflon e osservai con una certa sorpresa che era molto più morbido di quanto ricordassi. Fu solo quando provai a sollevarlo dal bancone, che mi resi conto che doveva essere successo qualcosa: il fondo del barattolino vi rimase infatti attaccato, mentre ciò che stringevo in mano, ormai del tutto rammollito, sgocciolava il poco di cloroformio rimastovi. 

Intuii subito ciò che doveva essere avvenuto: ero rimasto vittima di uno dei più semplici e basilari principi della Chimica: il simile scioglie il simile. Il cloroformio, solvente dalla scarsa polarità, aveva infatti sciolto il teflon, una plastica, quindi apolare. Ma io questo lo sapevo benissimo: una delle tante cose che ti insegnano nei corsi di analitica è che i solventi organici vanno posti in contenitori di vetro, mentre sono le soluzioni di metalli, opportunamente acidificate, ad andare nei contenitori di plastica. 

Quel giorno ci rimisi un barattolino di teflon, ma imparai una grande lezione, cioè che la Chimica non è astratta teoria: avevo infatti avuto una riprova che i principi da me studiati erano verificabili. Questa storia, anno dopo anno, l’ho usata più volte coi miei studenti, per farli riflettere sulle proprietà di miscibilità delle sostanze, ma anche che la Chimica è un qualcosa che puoi toccare con mano ogni giorno, nelle piccole come nelle grandi cose.

Marco Lazzara